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Appunti sparsi su qualunque argomento che potresti aver scritto anche tu. Ma, purtroppo per me, li scrivo io e li dedico a chi affronta la vita con un White Russian in mano sognando un mondo migliore. Ma poi ci ripensa perchè tanto, alla fine, il mondo è di chi si fa la foto sorreggendo la Torre di Pisa. E va bene così.

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Sulla panchina di Piazza Utopia

di:

– Ma te la posso chiedere una cosa?

– Certo, dimmi…

– Ma secondo te, quand’è che diventiamo adulti?

E mentre questa domanda viene fatta una meteora solca il cielo sulla testa dei due ragazzi, e mentre la meteora si consuma in una scia di luce al neon, in quel preciso momento e in quel preciso posto, là dove adesso c’è una panchina, in Piazza Utopia, ecco, proprio là e nel medesimo istante ma nel passato, in un tempo prima che nascesse il Tempo, un ragazzino, accovacciato a terra, è alle prese con l’accensione di un fuoco.

Anate Hsik, questo il suo nome, con cura protegge le debole fiammelle che dalle ancora più deboli scintille della sua pietra focaia avevano iniziato a mordere l’esca, fatta di foglie ed erba secca e legnetti accuratamente sminuzzati e disposti, con cura quasi ingegneristica, in complicate forme geometriche. E quando le fiamme diventano vivaci, infila la piccola mano in un sacchetto di pelle di lupo che porta alla cintola, prende un pugno di finissima sabbia blu luminescente, porta la mano sopra le fiamme e, lentamente, fa scivolare la sabbia in una silenziosa cascata di colore che dal blu si trasforma in tutte le sfumature di un arcobaleno ancora solo immaginato e il fuoco inizia a crepitare con un suono come sciabordio di onde e fruscio di foglie in un bosco a primavera, e poi, all’improvviso, silenzio, e poi un’esplosione di fumo denso e  perlaceo che come un’enorme nube si addensa e si accumula al suolo, immobile. Anate Hsik con un coltello riduce quella nuvola fattasi solida in tanti piccoli tocchetti opalescenti e, una volta terminata questa operazione, accoccolatosi a terra, un tocchetto per volta, vi soffia dentro e con le giovani mani li trasforma in mille forme, sempre diverse. Anate Hsik è il dio dei Sogni, ed è un ragazzino e, come tutti i ragazzini, in un mondo che ancora non esiste se non nella sua immaginazione, costruisce  illusioni oniriche che poi spedisce in quell’Universo ancora senza colori, e senza forma, odore, sapore, e anche se ancora il Tempo e lo Spazio sono concetti di là da venire, lui ha già fantasticato su tutto quello che sarà e si diverte a costruire storie e a sfilacciarne trama e ordito ricomponendoli in orgiastici nonsense a volte grotteschi, a volte spaventosi, ma molto più spesso agrodolci.

– Tu sarai il sogno di una sposa all’altare, tu un gatto che fa le fusa, tu una madre che muore, tu un melograno, tu… mmm, vediamo, ah si, tu invece sarai il sogno di un profumo che si trasforma nel suono di un addio, e tu un vulcano che erutta bolle di sapone e che poi si trasformano in fiori fatti di scintille, e tu  una stella nera che assorbe luce trasformandola nelle note basse di un cuore che batte, tu un pianeta fatto di gomma che rimbalza tra le pareti senza fine dell’infinito, tu invece sarai il sogno di una melodia difficilissima da suonare, tu un’intuizione che al risveglio sarà impossibile da ricordare, tu un Requiem suonato in una cattedrale dalle cui pareti rombanti cascate di acqua rossa e blu si dissolvono in nebbia e fulmini, tu un bacio tra due anime che si uniscono nello sbuffo di vapore di una moka, e tu, per finire, tu sarai una storia che nasce su di una panchina.

Anate Hsik, dopo aver finito di dare un’anima ai sogni, li lancia verso il cielo nero e rosa che lo sovrasta, un cielo ancora senza stelle, e qui, nel freddo dello spazio, i sogni si trasformano in polvere cosmica, quelli più piccoli, in asteroidi i più grandi, in comete i sogni ricorrenti.

E giorno dopo giorno, anche se non esistevano i giorni, Anate Hsik si divertiva a tramutare i suoi pensieri in sogni da lanciare, così come si fa con i sassi sull’acqua, in quella bolla vuota che per noi oggi significa “casa”.

Fino a quando, infilando la piccola mano nel sacchetto di pelle di lupo appeso alla cintola, la scoprì vuota. La sabbia blu luminescente era finita. E ne cercò altra ovunque e non trovandola iniziò a temere di non poter più giocare con il filo infinito della sua fantasia.

E si disperò.

E una una lacrima cadde sulla terra ai suoi piedi e immediatamente il terreno iniziò a ribollire e a raggrumarsi e i grumi si trasformarono in bolle nere, nere come la luna quando non ha il cielo in cui specchiarsi, che si staccarono dal suolo e volteggiando a spirale nell’aria si posarono sul corpo di Anate Hsik e, quando questo ne fu ricoperto, furono assorbite dalla pelle, dai capelli, dagli occhi. E il dio ragazzino fabbricatore di Sogni iniziò a singhiozzare e a piangere, senza motivo e con la voglia di smettere ma continuando a farlo, e come tutti i ragazzini istintivamente chiamò sua madre. E la madre, l’intelligenza all’interno della quale quell’Universo ancora informe era solo il lampo fugace di un’idea o l’incipit di una storia ancora non scritta, rispose.

– Figlio mio, eccomi.

– Mamma, non lo so cos’ho, non lo so perché piango, non riesco a smettere… cos’ho, mamma? Cos’è questa cosa che sento alla gola?

– La tua malattia ha un nome, figlio mio… dalla tua lacrima, fatta di sogni non detti e di paura, e dalla terra, fatta di polvere di realtà e di cristalli di necessità, è nato il Dolore.

– E fallo andare via, ti prego!

– Il Dolore, figlio mio, non va mai via, esso è forte, solo il Tempo ne può attenuare gli effetti.

– Dove lo trovo questo Tempo?

– Ancora non esiste, esso è troppo potente, se lo creassi presto sfuggirebbe al mio controllo.

– Ma io ne ho bisogno, mamma, ti prego! Sto male…

– E sia… ecco, bevi questo, amore mio.

– Cos’è?

– Succo di giorni che furono e di estati che verranno e di cicli lunari e di anni effimeri.

E Anate Hsik bevve. E il corpo si trasformò, l’altezza aumentò e la barba crebbe e divenne grigia e la schiena si incurvò e le rughe scavarono il volto e gli occhi si inumidirono e lo sguardo si spense in un vuoto senza confini. E il Dolore diventò un piccolissimo puntino tra il cuore e la gola, non più doloroso ma simile ad un nodo palpitante di noti basse.

– Mamma, ma cosa… cosa mi è successo?

– Prendi il tuo sacchetto di pelle di lupo.

– Oh! Ma è di nuovo pieno! Però… adesso la sabbia è grigia…

– Adesso che è nato il Tempo, figlio mio, sei diventato adulto. Adesso con la tua sabbia non costruirai più sogni, ma ricordi e rimpianti.

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– Ma te la posso chiedere una cosa?

– Certo, dimmi…

– Ma secondo te, quand’è che diventiamo adulti?

– Quando il dolore ci allontana dai sogni e il tempo trasforma i giorni in rimpianti.

E mentre sulla panchina di Piazza Utopia i due ragazzi si abbracciano una meteora solca il cielo consumandosi in una scia di luce al neon.

Illustrazione in copertina a cura di Greta Bengasi.