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"Ledi emotional day" è la rubrica del ledi diario di bordo in una giornata gheriglio. Dentro è scatola delle meraviglie, non sai mai cosa aspettarti ma qualcosa è sempre lì a tremare nell'ombra.

Ledi Emotional Day #11

di:

Certo la vita è una cosa difficile. Certo qualsiasi osservazione sulla realtà e sulle sue astrazioni è mortalmente noiosa. “Quando ero piccola facevo, dicevo, etc”, istanze di classe strumentalizzate per coerenti fini insaputi dagli attori parlanti, troppo parlanti.

Ciao, mi chiamo Leda, ho compiuto 36 anni a luglio e vivo una stasi e un vuoto che corteggiano insistentemente la cronicizzazione del loro esistere. Che dire, il corpo somatizza, ma poi che cacchio vuol dire me lo spiegherete. Cosa dovrebbe somatizzare sto corpo, poveretto, se non il suo progressivo avvicinarsi alla morte? L’acciacco, il tic, la ruga e il malanno e l’affanno. Nella permanenza c’è sofferenza ed è sofferenza la fatica che esercitiamo su noi stessi e sul mondo per alleviare queste pene e ritardare, smorzare, etc tutti i sintomi di Quella, di cui sopra.

Perciò, come sono andate le vacanze? Tutte le frasi che mi vengono in mente e sto per digitare hanno un potenziale polemico gigantesco. E pensare che ho appena iniziato. Chissà dove mi porterà questa scrittura dopo tanto tempo qui a Milo e in generale a Oriente, nel mio amato Oriente. L’aria si è fatta più fresca e le persone intorno a me peggiori, forse perché io sono sempre più gonfia di rancore e frustrazione, forse perché provo invidia e vorrei essere la più peggiore dei peggiorissimi. Non so, cari lettori, non so nemmeno se ci siete e se vi conosco che non vi volevo conoscere, se potremmo conoscerci prima o poi e speriamo di no.

Mi piace parlare di sesso quando sono annoiata. In questo momento sono molto annoiata e quindi vorrei coinvolgervi nella stesura di un racconto breve che ho scritto per un evento a Fraginesi, in provincia di Trapani, con terra insumisa. Non è un racconto di sesso, ma il sesso c’è sempre, sempre. E qui con voi amplierò la faccenda. Il racconto ha un titolo molto banale “feci fritture ammare”. All’interno delle parentesi quadre potrete leggere le modifiche che sto facendo adesso al mio racconto già finito e chiuso, ora, mentre scrivo questo ledi emotional 11 che parte con non poco attrito:

Là sotto, in assenza di peso, c’è meraviglia. Il mio al di là è così vicino, così blu che questo corpo vive il suo passaggio nelle condizioni più elevate e nobili. Mi trovavo poco al largo del porto sicuro, sopra un veliero attaccato all’ancora con quindici cabine piccine e tanto luccichio. Lì ho trovato l’uomo luce, un uomo con tante casse bluetooth appese al collo e alle braccia e alla vita e alle gambe, tutte sincronizzate sullo stesso pezzo musicale dei Rebolledo. Tante lucine su di lui che ogni giorno, nella cabina numero 2, la cabina radiografica, faceva fare lastre con contrasto a tutti gli ospiti del veliero durante la defecazione. Si divertiva così. Noi ce ne stavamo a fare patatine fritte tutto il giorno. Mi ricordo quando Monica lanciò il cesto della friggitrice piena, in mare. L’acqua era talmente cristallina che le miriadi di patatine fritte gialle in crosticina biscottate si stagliavano in modo fiammeggiante. [Si aggiungevano anche strippanti bagliori di pesciolini ingolositi e con tanta voglia di morire male, perciò le patatine fritte traballavano isteriche se afferrate dalle piccole fauci di pescetti piccini e argentei]. I bambini si tuffarono tutti in massa dal veliero per raggiungere le patatine fritte e come tanti piranha iniziarono a mangiarle sguazzando nudi e ingoiando anche tanta acqua salata [e, io avrei sperato, qualche pescetto un pò troppo soffermante su cibo dorato e nuovo e letale]. Tanti piccoli colapesce, ma no. No, i nostri Cola giù nel silenzio e nell’ovatta del mare non potrebbero stare. Il divano è il mezzo di trasporto più efficace per la [loro] navigazione. Noi ce ne stiamo qui perché il mare si fa mangiare e ci divora e piano piano perdiamo la memoria e ciò che rimane è una vaga sensazione, indefinita e piena di sale. Così mi persi, in modo molto banale in quetsto sud che non esiste qui sul veliero. L’uomo luce non si faceva avvicinare in modo particolare e si chiamava Turi. Io lo desideravo e non potevo averlo. Simone mi desiderava più di ogni altro momento della nostra vita insieme e io mi sentivo sbocconcellata dal mare dal sole e da me stessa. La mia mente era naufraga e annegava incosciente nel sale e nelle fritture. Oggi era più lontano di domani. [E in quello che il mare può suggerire a una mente dall’acqua lambita e scavata, c’è un vuoto pieno e un pieno vuoto. Mi disgusto e mi imbarazzo se ci penso, ma mi eccito pure. Turi sapeva che lo volevo, ma io non avevo capito che lui l’avesse capito. Così un giorno mentre tutti friggevano le patatine e si versavano olio vergine d’oliva addosso per friggersi al sole, Turi mi chiese di fare la radiografia con contrasto senza fare la cacca. Non capivo e lui mi invitò a seguirlo in cabina. Aprendo la porta eccolo lì, lo vedo ancora: uno sgabello con un cazzo di gomma di media misura attaccato sopra: “mettitelo nel culo e scopati che ti faccio la radiografia” e con la mano mi invitava ad andare in quella direzione. Lo guardo per un attimo interdetta ma con il carbone bagnato e non solo quello. Avanzo verso lo sgabello incerta e sento Turi che si mette al lavoro alle macchine. “Tieni la lingua di fuori mentre te lo butti dentro e vedi di venire veloce perché non ho tempo da perdere”; sento la sua voce come lontanissima e abissale. Turi non ha finito di parlare e mentre bagno con la saliva il coso che aveva preparato per me, mi dice: “Se andrai avanti con questa storia, andrò da tuo marito e gli dirò di portarvi tutti a terra e di badare a te che non sai stare al tuo posto”. Questo ricordo dell’uomo luce mi fa ancora masturbare, ma la mia vergogna esagerata e miscelata con la grande insoddisfazione generata da quell’unico episodio, mi garantisce ogni volta orgasmi rapidi e potenti. Turi aspettò il mio godimento completo guardandomi quasi con noia e ricordandomi di tanto in tanto, mentre mi affannavo, di tenere la lingua in fuori. Alla fine mi congedò come tutte le altre volte che andavamo a giocare a fare la radiografia della cacca con i bambini e il suo comportamento fu ineccepibile per il resto del tempo sul veliero, tanto che più volte mi chiedo se sia stato un sogno o sia accaduto davvero. Unico dettaglio che mi dà la certezza che tutto sia vero è il suo pugno in pancia quando quella sera, impazzita dalla voglia sconsiderata e non razionale di lui, mi avventai alla porta del bagno per avere un contatto fisico con l’uomo della luce. Non disse niente, solo quel pugno quasi gentile. Con Simone quella notte concepimmo Nicola, il nostro terzo figlio, nato dalla lussuria segreta e muta dei giorni fritti. E il mare, a seppellire e portare tutto con sé, nella sua memoria irrintracciabile e perduta].

Ecco qua, adesso procedo nel nulla di questa scrittura settembrina frizzante e ricca di false promesse. E’ da mesi che passo molto tempo nelle live di ASMR, per ora questo ancora mi basta per tenermi rilassata. Eppure non soltanto un amico mi ha esortato alla milizia del mio io: rivoglio la Leda Star, la Leda che non chiede mai niente a nessuno e straparla, strafa, stra e basta. Fatta e fritta lo sono sempre stata, ma le dune del deserto cambiano costantemente forma. Questa estate per la prima volta non ho letto nemmeno un libro, uno perdio. Disegni, pochi, molta acqua molto gonfiore. C’è da dire che tanto si fa la stessa fatica sia a ridere che a piangere per cui non esistono grandi differenze. Quello che conta per me è l’attrito, l’intensità e l’importanza dell’attrito mi fanno sentire viva, come si dice. Per dire: caldo freddo, duro molle, chiaro scuro, liscio ruvido, etcetera. Nell’attrito c’è il patetismo della vita e direi anche l’unico modo per poterla vivere. In assenza di attrito è pure concettualmente impossibile pure respirare (e forse non solo concettualmente). Quanto vorrei ascoltare musica e vedere tanti film, ma sono incastrata nelle nuove parole di merda, sono incastrata in una sorta di burn out da cui non posso e quindi non voglio più tornare. Mentre scrivo i pensieri intrusivi (eccola l’altra parola incastrante, ormai sto cazzo di linguaggio è solo per, vabbé) mi dilaniano in modo lieve ma impedendomi di essere nella piena fascinazione di me stessa che mi permette di brillare e di fare le curve e le accelerate e le frenate con controllo e bellezza. Sempre di scrittura parlo, credo. Okay. Ferma.

Perciò ci sono sti tipi che vanno a fare una passeggiata ed è bellissimo, è come ritoccare con i propri polpastrelli la propria PROPIA adolescenza e tutte le emozioni trpp pazzesko le emozione, e quindi il contatto con la natura, l’amore per l’universo, la soddisfazione del proprio corpo in movimento e della propria mente che si apre nella contemplazione del cazzo che ce ne frega e sappiamo tutti quanto sia UAU. Ci sono gli altri tipi, quelli che riesplorano la propria infanzia nel trip o costruendo cose a caso, quegli altri che si bruciano al sole e si annegano a mare, quelli delle gite, delle cene, quelli del viaggio lontanissimo o delle vacanze vicinissime ma di qualità. E così è passata, è passata pure sui social questa estate e con tutte le sue miserabili gesta eroiche. La solitudine resta insieme alle cose rimaste in stasi. Insieme alla polvere che racconta di quella stasi e ci permette di dare un peso e un senso al tempo. E ieri sera ho guardato un film, Il cardellino, nelle parole di una mia amica che me lo raccontava. E sento sotto le mie mani dolci il pelo morbido di questo animale domestico bellissimo chiamato Pigrizia psicotica. Animale a pelo lungo, molto grande che mangia e beve poco e lo fa di nascosto. Tante immagini disintegrate di sorrisi, fraintendimenti, impressioni, sapori, e dopo la parola sapori non ce la metto la parola odori? E tanto altro. Pianti, botte, bicchieri, gattini, chitarre, barbie, polly pocket, polpette, barca, aspirapolveri e morte, malanni e risate, sudore e vestiti neri. Tante cose e le voglio dimenticare perché il burn out non mi permette di tenere troppe cose e tante sono poche, meno di quelle che avrei mai pensato di non riuscire a tenere a mente. E tutto quello di cui invece vorrei parlarvi non posso dirlo. Ci giro intorno e parlo di niente perché ciò di cui vorrei davvero parlare e imparlabile. Non si tratta delle ragioni dei “tabù”, si tratta di serenità e si tratta anche di lavoro e sappiamo tutti che a questa parola ci imbalsamiamo tutti.

Poi nei sogni delle cose messe da parte e rimosse, nelle telefonate dove altre voci ti parlano e abitano la tua casa… la mia… arriva. Vi chiederete cosa, non ve lo dico. Ma arriva. Ecco pure nei colori di sfioramenti e di autostrada A19, negli ardenti finestrini chiusi poco prima di levare le ancore, ecco quegli innumerevoli secondi che ogni giorno si ripetono e ricordano di ricordare e di fare e di altro. Sono stanca e quando sono stanca ho bisogno di lasciare andare ma penso che io non possa chiudere così questo ledi emotional, manca ancora qualcosa. E riporto quindi riporto le parole di Antigone tratte da “La tomba di Antigone”: La verità è quella cosa che gli Dei ci gettano quando ci abbandonano. E’ il dono del loro abbandono. Una luce che sta più in alto e più oltre, e che nel cadere sopra di noi, i mortali, ci ferisce. Sono, quelli sui quali cade la verità, come agnelli col marchio del padrone.

Immagini originali di Elias Vitrano.