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"Ledi emotional day" è la rubrica del ledi diario di bordo in una giornata gheriglio. Dentro è scatola delle meraviglie, non sai mai cosa aspettarti ma qualcosa è sempre lì a tremare nell'ombra.

Ledi Emotional Day #13

di:

Rispetto alla vita, alla natura, a me medesima, ai miei simili, alle altre creature animali e vegetali e etcetera, la penso come il Marchese De Sade. Il mio pensiero però è puro ludibrio perché nei fatti obbedisco alle leggi particolari del mio essere individuo e seguo obbediente la via della conservazione, trasgredendo in modo sostenibile per non tradire totalmente il mio istinto. Non sono Juliette e lo sono allo stesso tempo. Il mondo sta quindi cambiando ai miei occhi e ai miei sensi. E’ questa solo una percezione, il mondo è sempre stato lì, indipendentemente da me, ma la mia estraniazione è sempre più sospinta verso mari aperti dove la realtà è scevra da tante informazioni che qui vigono e determinano le dinamiche dell’esistenza sociale.

Veniamo qui a noi, o sempre a me, che scrivo. Leggevo qualche giorno fa un libretto, Piaceri singolari di Harry Mathews, e l’unica cosa che ho trovato pigramente interessante è l’ubicazione varia dei luoghi sparsi nel mondo. Si, perché non so niente di geografia generale, ma la geografia particolare, il nome di un luogo trovabile poi nel mondo, mi intriga: Manila, Perth, Rosh Pinna, Erzurum, Spokane e molti altri. Così, a caso, un condimento esotico a una vicenda ordinaria pone un focus buffo: i campi del Tennesee, praticamente. La “vera sfida” è non lavare le vetrate delle finestre dell’abitazione per anni. Eppure ci abiti e ci passi e spassi. E oggi dopo aver donato un bicchier d’acqua alla piantina affidatami da Ilaria prima che partisse per Roma, ho dato il mio contributo alla conservazione e al perpetuarsi della vita. E io, sempre piena di sangue sono. Tanti otri con litri di sangue che girano, parlano, ridono, scopano, contano, camminano. E non ci versiamo mai, stiamo sempre chiusi per non farci vuotare, per non farci bere. Eppure io sono rimasta stregata dal denso fluire del mio sangue lungo il collo, attraverso il capelli, dalla mia testa e poi sul pavimento e sui vestiti. Caldo, scuro e anche brillante, tanto. E perché tenere chiusi questi pesanti involucri di sangue. E perché non fare scorrere il sangue e berlo e liberarlo. A stagnare in confezione si infetta e si rovina.

Ma non vi faccio perdere il filo rosso della vita e tento di sistemare il mio procedere. Ecco, vi metto qui un racconto che ho scritto il 4 marzo del 2021. Così, perché oggi è un sabato mattina e c’è sempre il sole.

BROWNIE BROWN LA RAGAZZA SENZA SOGNI

Il suo vero nome è Cristina e le piaceva molto perché fa rima con eroina. Brownie Brown era il soprannome che le avevano dato al parchetto, i tossici. Non si tratta di una storia di droga, si tratta di una storia di cacca. Brownie Brown disprezzava quellillà, quegli amici che bighellonavano al parchetto e non avevano soldi per rifarsi i denti divorati dalla droga. Lei andava al parchetto col suo padrone di turno, al guinzaglio, e faceva la cacca in un’aiuola oppure tra due panchine. Poi, il padrone tirava fuori un sacchettino di plastica e rimuoveva l’escremento fumante e odoroso. I tossici impazzivano per quello spettacolo e Brownie Brown lo faceva tutti i giorni, tranne la domenica perché il padrone la portava fuori città a correre nei boschi. L’arrivo della pandemia aveva colto Brownie Brown impreparata e sola; il padrone con cui si frequentava in quel periodo aveva una paura fottuta del virus e decise di starsene a casa fino a data da destinarsi. Così Brownie Brown si trovò un giorno a fissare il water, perplessa: di farla lì, nemmeno a pensarci. Così prese un giornale e ci fece la cacca sopra. Era così felice ma si accorse poi di essere sola. La soluzione fu presto trovata: i tossici le chiesero perché non facesse più i suoi bisogni al parchetto e lei spiegò loro la situazione. Quellillà le dissero che il parchetto senza le sue cacate non era più lo stesso e che sarebbe stato bello poterla portare a cacare lì intorno. Brownie Brown disse loro che nessuno aveva i requisiti per poterlo fare perché “siete dei tossici di merda e io non sarò la vostra cagna”. Perciò uno di loro le chiese di andare avanti con i giornali, a casa. E poi incalzò: “Potresti filmarti mentre cachi e condividere i video in una chat di gruppo esclusiva solo per i tuoi amici tossici”, pausa, “tanto lo sai che non ci facciamo le seghe, è solo per riempire il vuoto che hai lasciato al parchetto, ti va?”. Brownie Brown sorrise: “Anche io mi sento tanto sola, se non facesse schifo mi farei insieme a voi. Ok, questo è il mio numero, fate la chat di gruppo”. Detto ciò, girò sui tacchi e corse verso casa, si stava cacando addosso, tipo diarrea. Voleva riuscire a riprenderlo con il cellulare per inaugurare la chat con quellillà, avrebbe servito loro una mousse marrone di qualità eccellente.

Andando con ordine, benvenuta nel lavoro salariato, diceva sulle scale l’amico. Rispetta la punteggiatura e vedrai che del linguaggio non capirai un cazzo comunque. Nelle frettolose passeggiate diurne e notturne a volte basta solo cambiare calzature per determinare la potenza e l’assenza di desiderio, eppure, procedere è raramente contrastabile. La natura è resistibile a tutti gli assalti presuntamente contrari che sono contemplati sotto le sue leggi invalicabili.

Alcuni lettori fedeli del ledi emotional mi scrivono in privato soffermandosi su alcune frasi o su alcuni passaggi. Io vorrei soffermarmi sempre, ma la mia impazienza e la mia voluttà mi impediscono l’agire come io lo concepisco e ammiro. Prendo e incasso, raramente mi trovo ad argomentare, mi piace però osservare d’ascolto e se trovo delle persone che discutono e argomentano in uno scintillio di erudizione e intelligenza io mi ravvivo. Sono schizzinosa e inetta e non sono riuscita a guardarmi bene dal confessare la mia esistenza. Infatti sono morta e questo lo sosteneva un’altra Cristina, nel frattempo defunta. Voi leggete frammenti caotici di superfici trascurate delle mia mente, vorrei farvi nuotare sotto, dove ogni cosa è più fredda e buia, dove non serve la luce per respirare, ma come posso fidarmi di voi o di chiunque altro. Non posso. E fiducia vuol dire niente, è un’altra parola che costruisce regni magnifici e sfiancanti.

Vi porgo quindi i miei più sentiti e cari saluti con un altro racconto, scritto il 25 gennaio 2021.

NATY PER FUTTI FUTTI

Nella fredda casa al primo piano, Nunzio non accendeva mai i termosifoni. Irene tremava, ma scaldava i piedi freddi quando guardavano la televisione seduti sul divano. Irene si accoccolava a Nunzio e ficcava i piedi sotto la sua coscia, in modo da fare un sandwich con carne e divano che garantisse temperature accettabili ai suoi artici inferiori arti. “Irene, non solo non accenderò mai il riscaldamento nella casa dove viviamo, ma tu dovrai assicurarti di essere sempre bagnata, che io decida di fotterti o meno. Se entrambe le cose sono compatibili con il tuo modo di stare al mondo, allora puoi sposarmi ed essere mia moglie”. Queste erano state le parole di Nunzio alla vigilia delle nozze. Irene si era resa conto che per superare i controlli improvvisi di Nunzio, l’unica possibilità fosse essere atutenticamente eccitata, sempre. Capì che il segreto per non trovarsi nel bel mezzo di un divorzio fosse la completa sottomissione alla volontà di Nunzio. Privandosi di ogni distrazione e facendo la serva in casa, Irene si accorse che tutti i suoi impulsi frustrati preparavano il suo corpo al controllo e al successivo ed eventuale assalto carnale di Nunzio. L'”ispezione” era una pratica domestica talmente assodata nella vita della coppia che avveniva anche in presenza degli amici che il giovedì sera venivano a giocare a briscola e a scopa nella casa con i termosifoni spenti. Gli amici per rispetto fingevano di non vedere la mano di Nunzio mentre in cerca di liquidi frugava tra le cosce di Irene, ma una sera accadde qualcosa di nuovo. Nunzio propose di smettere di giocare a soldi e di giocare a mogli. “Ce l’hai solo tu la moglie, Nunzio”, gli fece notare uno dei tre. Così Nunzio, dopo un breve silenzio e un sorriso umido dichiarò che Irene avrebbe fatto la moglie di tutti in modo che a turno ognuno di loro potesse porla sul piatto per la soddisfazione dei vincitori. “Voi fareste lo stesso per me, amici. Il bene deve essere comunitario, solo così è possibile distruggere lo schema capitalista. E io ho un bene, vero Irene?”. E così ogni giovedì Irene si trovò a ricevere l’ispezione da parte del gruppetto di giocatori, ruotando intorno al tavolo ogni volta che le si chiedeva di avvicinarsi. Alla fine di ogni partita Irene si chinava sul bracciolo del divano o si stendeva sulla schiena a cosce divaricate. Capitava anche a Nunzio di vincere e la cosa le dava molto piacere. Irene si accorse che il giovedì sera i suoi piedi erano caldi e propose quindi a Nunzio di invitare gli amici a giocare anche di martedì e sabato: “tanto non giocate più a soldi e il capitalismo fa fatica a rialzarsi. Se condividi il tuo bene tre volte a settimana, vedrai che lo schiacceremo e non starà più in piedi”. Nunzio rimase colpito dalla furbizia di Irene e acconsentì soddisfatto. “Mi piacciono i cambiamenti, Irene, purché i termosifoni restino spenti”.

L’agente più sicuro dei miei capricci è anche il passante, l’estranea, l’amico, il corteggiatore. Io rimetto il mio agire agli altri, anche a me stessa, tra gli altri. E ora, prova a sottrarre il mio tempo a me, parlandomi, leccandomi, invocandomi, rimproverandomi, insultandomi, venerandomi, ignorandomi. Facetelo, fallo e facete questo e altre e altra. Tutto vi è permesso e in questo nessuno può esser d’aiuto. Che la morale e gli scrupoli possano vivere sempre nei pressi della mia casa, ma non dentro casa. Vi saluto, povery.