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Raccomandazioni #3: Alkisah e le sue millemila permutazioni

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Qualche tempo fa, in un thread su Twitter, Holly Herndon suggeriva che dovremmo pensare la musica oltre lo streaming. Che senso ha appaltare il nostro rapporto con la musica, e in effetti le nostre rappresentazioni del mondo, a un sistema che ne stabilisce il valore in base ai riascolti, ai posti in playlist, e a tutte le assurde dinamiche che girano attorno a Spotify e affini? Una delle risposte più interessanti che le sono arrivate è quella di Rully Shabara, la metà vocale dei Senyawa. 

Shabara ha raccontato a Herndon l’esperimento che il suo gruppo sta facendo con l’ultimo disco, Alkisah: decentrarne radicalmente la produzione, la distribuzione, ma anche la stessa creazione. I Senyawa hanno chiamato a raccolta 44 label da tutto il mondo. Ciascuna ha stampato l’album a modo suo, ripensandone l’artwork e coinvolgendo gli artisti locali per realizzare remix album paralleli a quello originario. Il risultato è che Alkisah non è “un album”, ma una permutazione indefinita di reinterpretazioni, riscritture, dialoghi tra comunità localizzate in tutti gli angoli del pianeta (da questo angolo del pianeta hanno risposto due etichette, Artetetra e Communion). I Senyawa non hanno i diritti dei brani: come hanno detto al New York Times, “Non vogliamo dominare nessuno, questa musica può essere di chiunque”. 

Alcuni degli Alkisah usciti in giro per il mondo

Lo spirito di sfida e di rimessa in discussione dal basso non è arrivato con il progetto Alkisah, ma ha permeato l’intera carriera del duo giavanese. I Senyawa hanno sempre prodotto una musica che volendo si potrebbe definire “metal” – violenta, sulfurea, piena di spasmi impazziti. Solo che dai chitarroni e dai blastbeat il loro suono è lontanissimo. Tanto per cominciare sono in due, con Wukir Suryati che suona strumenti autocostruiti o modificati, spesso acustici, e Rully Shabara che più che cantare sembra vomitare i demoni che gli entrano nel corpo (avete presente Mike Patton? Ecco, solo che invece di farvi ridere Shabara vi fa cacare addosso). I Senyawa hanno una vibrazione “folk”, che però ha poco a che vedere con il recupero filologico, o con una qualsiasi esotizzazione, delle loro radici indonesiane – è un folklore ancestrale che potrebbe venire tanto dalle profondità dell’esperienza umana quanto da un pianeta alieno. Negli ultimi anni la roba dei Senyawa si è un po’ allontanata dai momenti ipercaotici, quasi grind degli inizi e si è spostata – con il meraviglioso Sujud del 2018 e con Bima Sakti del 2020, in collaborazione con Stephen O’Malley – verso una specie di doom rituale, denso come il fango e nero come la pece. 

Alkisah però è qualcos’altro. Mantiene una vibrazione da musica rituale, ma si tratta di un’esperienza meno immersiva e più minimale rispetto ai dischi precedenti. È come un rito che si tiene dentro le macerie di una città morta, tra clangori di spazzatura, strumenti a corda rotti ripescati dalle discariche, e improvvise esplosioni di terrore. Del resto, la storia raccontata dal disco è quella di una civiltà (la nostra?) che si ammazza con le sue mani, condannandosi all’apocalisse. Alkisah, però, è anche la storia di ciò che accade dopo quell’apocalisse, di come la fine di tutto distrugge concetti come il potere e l’autorità, e di come l’umanità può ripartire dalle macerie in cui ha ridotto il suo mondo. Il concept dell’album, il suono e la strategia di produzione riecheggiano questa visione e questa urgenza: l’idea di ripartire dal locale, e di creare un’epica del mondo che finisce, un mantra che passa da una bocca a un’altra – su Not, Enrico Monacelli suggerisce che la voce di Shabara non sembri il canto di un individuo, quanto piuttosto il gorgoglio di una moltitudine. 

La decentralizzazione produce tutta una serie di effetti. Sfida il flusso (stream, appunto) centralizzato, dall’alto in basso, di Spotify; nega il principio di autorialità, ma anche la smaterializzazione forzata della musica, appaltandone la riproduzione a comunità di esseri umani; inoltre, mette quelle comunità in rete e in comunicazione fra loro, cosa che durante una pandemia globale non è poco, specie se sei una label o un collettivo artistico libanese o indonesiano. Eppure, c’è anche dell’altro: è la stessa forma scarna del suono di Alkisah, organizzato intorno al vaticinare folle di Shabara, che sembra fatta apposta per la deformazione e la trasformazione del folklore collettivo. Lo si nota dai remix – prendiamo per esempio l’album prodotto da Artetetra e Communion. Una paletta vastissima di artist* ha ripreso quel suono scarno, quello spavento di vuoti e pieni, e lo ha piegato alle visioni più disparate: dagli spettri dub di Babau al capolavoro doom/jazz di Laura Agnusdei, fino a Mai Mai Mai, che ha trasformato l’ossessione percussiva di Kiamat in nerissima melma digitale. 

Non so se la decentralizzazione che i Senyawa hanno messo in scena diventerà veramente il futuro della musica – in fondo, in questo preciso istante li sto ascoltando su Bandcamp. Resta che questo modus operandi è probabilmente la risposta più coraggiosa all’industria musicale del presente, ora che le piattaforme di streaming dettano il tempo sia a un mainstream discografico sempre più ambiguo che alle tradizionali tattiche ed esperienze DIY. 

E comunque oh, ringrazio i Senyawa anche per avermi fatto scoprire che a Bali c’è un collettivo di nome Chaos Non Musica

Qualche risorsa: