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L’Afrobeat come strumento di espressione nel 2023

di:

Immagine di copertina a cura di:

MARTINO PALMONARI, MARIA CHIARA FAGGIOLI, MATILDE BUI

3C Liceo Artistico “F.Arcangeli” di Bologna

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Fin dalla nascita dell’uomo la musica ha rappresentato un canale comunicativo fondamentale per l’instaurazione di legami sociali. Ai tempi in cui il linguaggio verbale (siamo andati parecchio indietro) non era ancora sviluppato, i suoni erano i codici con cui comunicare insieme ad un linguaggio non verbale attraverso i gesti del corpo diventati poi ballo, altro mezzo di espressione declinatosi nei millenni in forme dal contenuto differente e diversificato: danza prima della battaglia, di corteggiamento, e così via. In questi ultimi anni, con un’accelerazione improvvisa durante la pandemia, l’aspetto musicale del mondo ha seguito altre vie diventando canale attraverso il quale vendere altri beni, dai vestiti indossati al semplice cibo mangiato. Il musicista diventa brand di se stesso e allo stesso tempo fattore di scambio il cui unico fine è far acquistare quel bene o prodotto utilizzando la musica come richiamo puro e semplice, senza alcuna connotazione sostanziale.

Siamo guidati da scelte che crediamo consapevoli nonostante siano semplice somma di calcoli matematici (algoritmi) fatti per dirottare inconsapevolmente i nostri gusti e preferenze nel momento in cui ci affidiamo ad uno strumento tecnologico: quando apriamo il nostro smartphone e accediamo ai vari social accettiamo già di essere guidati da un pilota che ci mostra quanto sia necessario vedere per poter acquistare in maniera compulsiva, desiderare quell’oggetto di cui spesso non ne abbiamo bisogno, o addirittura influenzare le nostre scelte politiche, di vita, e culturali. Perché ora quel meccanismo si è attivato anche nella cultura spingendoci a sentire la necessità di essere sempre aggiornati riguardo l’ultima uscita discografica o, come ultimo fenomeno social, il libro da leggere: il fenomeno del #booktok ha degli aspetti sicuramente positivi ma il principale scopo è quello di portare l’utente al consumo e a desiderare di doverlo fare in continuazione, esattamente l’esperienza che provoca una dipendenza. 

Una realtà del consumismo culturale non nuova e ora potenziata dalla spinta tecnologica ma che è solo una fetta di un mondo musicale la cui essenza continua ancora a trovare terreno fertile nella sua pura espressività comunicativa attraverso altri linguaggi, quello sonoro e corporale, e quindi di per sé mezzo di promozione culturale, sociale, politica e storica. Con la musica raccontiamo il mondo, dentro una canzone troviamo la provenienza di chi quella musica l’ha composta, e quindi i luoghi ma anche la loro storia che combacia con quella dei popoli e della loro evoluzione sotto aspetti differenti.

Durante questa corsa folle e veloce degli ultimi anni il tema africano è diventato sempre più insistente ma in parte sganciato dal classico punto di vista occidentale e di quella appropriazione culturale ormai esistente da secoli. I protagonisti sono gli stessi africani che raccontano la loro storia e le tradizioni ma in quanto abitanti di altre nazioni o continenti perché lì hanno ormai la loro vita, una famiglia: cittadini a tutti gli effetti con un passato e una tradizione dove tutto è iniziato (tutta la musica del mondo che oggi conosciamo arriva dall’Africa) raccontato senza il filtro di uno osservatore esterno.

L’Afrobeat nasce agli inizi degli anni 60 del 900 come contenitore in cui mescolare la musica ai temi politici e culturali collegati al territorio di nascita e al suo ideatore e promulgatore: Fela Kuti conosciuto anche come The Black President. Londra di metà anni 60 è il laboratorio culturale in cui Fela Kuti attinge e trae ispirazione in quella città che da sempre alimenta la creatività umana e l’innesto delle radici tra popoli diversi. La poliritmia africana si plasma con il Funk di James Brown mentre la scrittura diventa improvvisazione come negli elementi basilari del Jazz. La musica non solo a servizio di una divulgazione artistica del suo popolo ma veicolo per le rimostranze sociali e politiche come critica al sistema, atto di ribellione, un po’ come successe al Blues nato dai canti degli schiavi africani tra le piantagioni di cotone degli Stati Uniti nel XIX secolo.

Con l’avvicinamento al movimento Black Panther, la musica di Fela, l’Afrobeat, si impregna di connotati sempre più politici portando alla fondazione della Repubblica Kalakuta in Nigeria, luogo di nascita di Fela Kuti e dell’Afrobeat, a metà tra una comune e uno studio di registrazione, il cui messaggio sociale verrà trasportato nel mondo insieme agli Africa 70 diventati nel frattempo un gruppo di fama internazionale. Il Black President ha tracciato una strada che ci porta fino ai giorni nostri durante i quali assistiamo ad un evidente cambio di passo e ad una prima timida normalizzazione di quanto fino a qualche anno fa veniva appellato come esotico – ossia, qualunque cosa non suonasse autoctono – entrando quindi anche in “casa nostra” principalmente attraverso il canale familiare. Quegli europei di seconda o terza generazione divisi tra il forte legame con il passato dato dalla famiglia di appartenenza con cui vivono e il futuro nel loro essere europei a tutti gli effetti, dalla nascita in poi.

Lasciando da parte il fenomeno più globale di Afropop (o di ciò che viene messo sotto l’ombrello dell’Afrobeats, diverso dall’Afrobeat) il cui scopo principale è il semplice profitto sfruttando i soli cliché del genere, ancora oggi l’Afrobeat è veicolo di rivendicazioni politiche e sociali spostate semplicemente su altri terreni, che non raccontano, solo, il popolo oppresso in Africa ma si collegano ai divari sociali ed economici che colpiscono gli afrodiscendenti in Europa. Partendo dall’eredità che lo stesso Fela ha lasciato ai suoi figli, Femi Kuti prima e Seun Kuti oggi, il figlio più giovane, l’organizzazione Tomorrow’s Warriors, con sede a Londra, fondata nel 1991 da Janine Irons e Gary Crosby è un esempio di quanto detto fino ad ora. Nasce come laboratorio artistico per musicisti inglesi di seconda o terza generazione di origine africana, con lo scopo di aiutare giovani artisti ad esplorare il loro talento musicale dandogli gli strumenti per esprimerlo al meglio.

Ed è proprio da quel luogo che la nuova scena jazz londinese, con diffusione internazionale, ha potuto porsi in essere formando i protagonisti di questo nuovo corso, dai Kokoroko agli Ezra Collective fino a Shabaka Hutchings, il sassofonista tenore che ad oggi è uno dei più forti sostenitori di una musica come trasmettitrice di messaggi politici legati all’afrodiscendenza e al concetto di alterità non come sguardo commiserativo dell’uomo bianco ma come coscienza dell’esistenza di diversità e non differenza. Tutti artisti che nel perseguire le loro carriere musicali si connettono alle radici facendo riecheggiare non solo i suoni e gli aspetti poliritmici della musica africana, che nell’Afrobeat hanno trovato un punto di partenza, non di arrivo, per la scoperta delle centinaia di musiche diverse che “sonorizzano” il continente africano, ma anche come manifesto per la rivendicazione di una storia che non smette mai di essere raccontata per quanto preziosa sia.

La musica è ancora canale di espressione che porta con sé tutto ciò che significa cultura, termine derivante dal latino colĕre «coltivare», quell’insieme di cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito: storia, geografia, politica, arte, letteratura.