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Recensione concerti al Monk – Ottobre 2023

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Mesi fa mi hanno fatto firmare un inconsueto patto con il satanasso di turno: “Vuoi tu che a Roma vengano a suonare band alternative di buon livello?” – “SI!!!” “Bene, firma qua: in cambio dovrai cedermi il tuo udito”… “Ok”.

Sarà l’anzianità che incombe, ma detto fatto, il patto è siglato. Gran numero di concerti, acufeni vari in cambio. Per i prossimi mesi prevedo tappi tattici o ascoltare da posizione più adatta a gente di una certa età. Ma bando alle ciance, procediamo con una raffica di recensioni dei concerti di Ottobre.

Long Ryders

Arrivato al Monk con zero aspettative, conoscendo poco e nulla della storica band Losangelina, rimango basito pensando di essere finito ad uno stand per il controllo della prostata.

Ok ok, arrivato sotto al palco inizia a spuntare anche qualche giovane trentenne, e posso finalmente tornare a sentirmi vecchio anche io.

I Long Ryders arrivano sul palco felici e sorridenti, ma soprattutto ultra gigioni e competenti nelle loro camicie Nashville Style. C’è da dire che i pezzi sono immortali, divertenti, ben interpretati e la serata prende decisamente “a bene”.

Sembra di essere finiti in una versione distopica della Contea: Bilbo non ha avuto problemi di anelli e avventure qua e là per le Terre di Mezzo, ma si è dato all’alt country, coinvolgendo Merry e Pipino al basso e alla chitarra, e lasciando Sam a sfogarsi alla batteria. Tutti sono felici, tutti stanno invecchiando ma a Nashville non c’è tempo che scorra. Niente di memorabile, niente di malvagio. Sorrido felice e torno a casa saltellando.

Brutus

I Brutus sono un trio belga (da leggersi con accento BrunoPizzulesco). I Brutus sono soprattutto Stijn Vanhoegaerden alla chitarra (ma chitarra è riduttivo), Peter Mulders al basso (ma basso è riduttivo visto quello che combina col gioco di piedi e pedali): grazie a loro il Monk viene saturato fin da subito da un tappeto sonoro, che si alterna fra apparentemente tenue shoegaze e tenace, rapido post-punk.

A trasformare tutto in un delirio di angoscia esistenziale, ci pensa Stefanie Mannaerts, batterista e cantante esperta in “musica di menare”. Se c’era da dare una coltellata alla morente scena alternative live romana, ecco che i Brutus non si sono fatti aspettare: la speranza è che ora dalle ceneri risorgano altre centinaia di band pronte a suonare a Roma e dintorni.

Concerto essenziale e coraggioso, inaspettato. Niente fuori posto. C’è poco altro da dire, se non: andate a vedere i Brutus, andate a vedere i concerti al Monk.

Algiers

Solo una band realmente alternativa decide di buttarsi a fare un concerto a Roma di Mercoledì, quando gran parte degli italiani è propensa a seguire coppe europee con risultati pessimi già ampiamente preventivabili.

Comunque, i 5 pazzerelli di Atlanta, in giro per l’ennesima volta lungo la penisola, se ne fottono e giocano un campionato a parte. Sia lode al Monk che si trasforma in un secondary stage da festival europeo, con tanto di amplificazione rivedibile, scenografia di luci e proiezioni video molto interessante, pubblico internazionale e distribuzione gratuita di acufeni.

Ryan Mahan e Matt Tong sono il cuore pulsante, digitale e analogico di tutta l’esibizione. Il primo abile nel distribuire energia elettronica, il secondo una macchina, in coppia i creatori di groove forse a volte eccessivamente carico, ma decisamente originale.

Tesche sulle retrovie accompagna la sua chitarra ad un piccolo laboratorio di suoni artigianali: archetti in crini massacrati, girelle di alluminio, catenelle lasciate cadere qua e là, piatti e contropiattini.

Fisher orchestra il tutto spippolando e mandando in loop qualsiasi cosa, crea basi e guida il tutto con potenza scenica, vocalità e carisma da vendere, mantenuto senza eccessiva ostentazione di sé.

Performance divertente, completa, cacofonica a tratti ma mai sotto la sufficienza. Generosi, accoglienti, potenti. Li aspettiamo al prossimo giro.